RUBRICA AGGIORNAMENTO GIURISPRUDENZIALE n. 5/2024
RUBRICA AGGIORNAMENTO GIURISPRUDENZIALE n. 5/2024
TAR Lazio, sez. II, sent. n. 5919/2024: toccano al giudice ordinario le violazioni commesse nell’esecuzione anticipata dell’appalto.
La decisione, della stazione appaltante, di non stipulare il contratto per accadimenti, relativi all’aggiudicatario, avvenuti nella fase di esecuzione anticipata delle prestazioni, incardinano la competenza del giudice ordinario e non del giudice amministrativo.
La ricorrente si rivolge al Giudice amministrativo per ottenere l’annullamento del provvedimento di revoca dell’aggiudicazione (ai sensi dell’art. 21- quinquies della l. n. 241/90) di un appalto di servizi. Il provvedimento – ciò, risulterà dirimente della controversia dichiarata inammissibile da parte del giudice in quanto incompetente - è intervenuto “nelle more della stipula del contratto”. Lo stesso veniva determinato da un comportamento, censurato da parte della stazione appaltante, “(asseritamente) irrispettoso tenuto dal ricorrente in occasione di un pubblico evento (…), nonché dalla mancata acquisizione dell’autorizzazione del c.d.a. della società resistente ai fini dell’inserimento di un (altro) evento nel calendario dell’avvianda stagione culturale”. In pratica, il provvedimento (definito) di revoca dell’aggiudicazione risultava determinato da situazioni di tipo civilistico, afferenti il momento dell’esecuzione delle prestazioni avviate anticipatamente rispetto alla stipula del contratto.
Gli accadimenti in parola, e le correlate censure, risultano rilevanti per il Giudice amministrativo nel momento in cui chiarisce la competenza sul ricorso.
Nella sentenza in commento si chiarisce che i provvedimenti impugnati (di revoca dell’aggiudicazione), in realtà, hanno un contenuto di tipo “risolutivo o di recesso dal rapporto di servizio instaurato con il ricorrente, essendo fondato, in ultima analisi, sulla negligente esecuzione del servizio, affidato in regime di anticipata esecuzione, sia pure in assenza della intervenuta sottoscrizione del contratto di appalto”.
Il Giudice capitolino coglie l’occasione per ricordare in che modo si incardina la competenza del Giudice amministrativo o quella del giudice ordinario, in relazione ai fatti/vicende che si collocano “tra l’aggiudicazione (definitiva ed efficace) e la stipula del contratto”.
In detto frangente sono rinvenibili tre differenti situazioni:
- la prima può intervenire nel caso in cui l’amministrazione che aggiudica adotti misure di “rimozione, in prospettiva di autotutela, degli atti di gara”. In questo caso, la correlata giurisdizione, trattandosi di “coda autoritativa” della fase pubblicistica, “veicolata a determinazioni di secondo grado, in funzione di revisione o di riesame” compete “al giudice amministrativo (vantando il privato mere situazioni soggettive di interesse legittimo”) ;
- una seconda ipotesi è data dal caso in cui l’ente aggiudicatore receda da un rapporto negoziale anticipatamente costituito (prima ancora della stipula del contratto come nel caso della consegna anticipata) per fatti/vicende – come quella in esame - di inadempimento “ad attitudine risolutiva od anche in forza della facoltà di unilaterale sottrazione al vincolo”. In questo caso la giurisdizione “spetterà al giudice del rapporto, cioè al giudice ordinario”;
- una terza ipotesi, infine, si sostanzia non tanto in caso di inadempimento delle dovute prestazioni oggetto dell’impegno negoziale (artt. 1173 e 1218 c.c.), ma per inadempimenti di tipo amministrativo ovvero “per l’inottemperanza ad obblighi di allegazione documentale preordinati (…) alla verifica di correttezza della aggiudicazione”. In pratica, quando l’aggiudicatario viola, a pena di decadenza, a precise richieste del RUP finalizzate alla stipula del contratto. Nella fattispecie in parola, si legge in sentenza “la giurisdizione (trattandosi propriamente di misura decadenziale, che incide, con attitudine rimotiva, sulla efficacia dell’aggiudicazione, legittimando il “rifiuto di stipulare” il contratto) spetterà ancora al giudice amministrativo”.
Nel caso considerato, il rapporto tra le parti era oramai da ritenersi paritetico, per l’avvio anticipato delle prestazioni che si collocava successivamente alla fase “amministrativa” dell’affidamento. In sostanza, si era ormai in un frangente “rimesso alla cognizione del giudice ordinario, Cass., SS.UU. 21 maggio 2019, n. 13660; Id. SS.UU. 25 maggio 2018, n. 13191…”)” a poco rilevando la circostanza che almeno un fatto contestato fosse avvenuto poco prima della formalizzazione dell’avvio dell’esecuzione anticipata.
In definitiva, conclude il Giudice, “a seguito dell’aggiudicazione efficace” la fase pubblicistica della procedura di scelta del contraente, fatto “salvo il diverso caso dell’annullamento dell’aggiudicazione per vizi di legittimità del procedimento ovvero di revoca in senso stretto, per sopravvenute ragioni di opportunità che investono” la procedura in parola e che sostanziassero “un vizio dell’aggiudicazione (di legittimità o di merito)”, il provvedimento adottato dalla stazione appaltante di rifiuto di addivenire alla stipula ha una evidente “vocazione privatistica”. Si colloca, pertanto, in un momento successivo alla conclusione del procedimento “(ovvero all’aggiudica efficace) e per fatti di inadempimento (all’obbligo di correttezza e buona fede) che incardinano la giurisdizione del giudice ordinario e non di quello amministrativo”.
TAR Lazio, sez. V-ter, sent. n. 8580/2024: nessun conflitto tra il Codice degli Appalti e l’equo compenso.
A distanza di pochi giorni dalla decisione assunta dall’ANAC, circa la paventata incompatibilità tra il Codice degli Appalti e la l. n. 49/2023 (equo compenso), è intervenuta una sentenza con la quale il TAR Lazio, facendo eco alla pronuncia del TAR Veneto, conferma la perfetta applicabilità della legge sull’equo compenso agli appalti pubblici.
Nella sentenza in commento, il Giudice amministrativo ha escluso qualsiasi forma di incompatibilità tra le norme dell’equo compenso, i principi di concorrenzialità imposti dai trattati europei e, soprattutto, le norme del nuovo codice appalti.
Di seguito il passaggio più rilevante della sentenza: “Come è noto, la legge n. 49/2023, pubblicata nella G.U. 5 maggio 2023, n. 104 (entrata in vigore il 20 maggio 2023), ha riscritto le regole in materia di corrispettivo per le prestazioni professionali, garantendo la percezione di un compenso proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, al contenuto e alle caratteristiche della prestazione professionale, ossia - per quanto qui rileva - conforme ai compensi previsti “per i professionisti iscritti agli ordini e collegi, dai decreti ministeriali adottati ai sensi dell’articolo 9 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27” (art. 1, co. 1, lett. b). Ai sensi dell’art. 2, co. 1, tale disciplina “si applica ai rapporti professionali aventi ad oggetto la prestazione d’opera intellettuale di cui all’articolo 2230 del codice civile regolati da convenzioni aventi ad oggetto lo svolgimento, anche in forma associata o societaria, delle attività professionali svolte in favore di imprese bancarie e assicurative nonché delle loro società controllate, delle loro mandatarie e delle imprese che nell’anno precedente al conferimento dell’incarico hanno occupato alle proprie dipendenze più di cinquanta lavoratori o hanno presentato ricavi annui superiori a 10 milioni di euro”. Le medesime disposizioni “si applicano altresì alle prestazioni rese dai professionisti in favore della pubblica amministrazione e delle società disciplinate dal testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, di cui al decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175” (art. 2, co. 3). Il legislatore ha quindi stabilito la nullità delle clausole che non prevedano un compenso equo e proporzionato all’opera prestata (art. 3), introducendo una nullità relativa o di protezione che consente al professionista di impugnare la convenzione, il contratto, l’esito della gara, l’affidamento, la predisposizione di un elenco di fiduciari o comunque qualsiasi accordo che preveda un compenso iniquo innanzi al Tribunale territorialmente competente in base al luogo in cui ha la residenza, per chiedere la rideterminazione del compenso per l’attività professionale prestata con l’applicazione dei parametri previsti dal decreto ministeriale relativo alla specifica attività svolta. Orbene, a differenza di quanto affermato - con articolate argomentazioni - dalla parte ricorrente, si deve ritenere che non vi sia contrasto tra le disposizioni appena illustrate e la libertà di stabilimento (art. 49 TFUE) o il “diritto di prestare servizi in regime di concorrenzialità” (artt. 101 TFUE e 15 direttiva 2006/123/CE) (come viceversa sostenuto dalla società istante, cfr. pagg. 13 e ss. e 25, memoria depositata in data 29 marzo 2024), né “ontologica incompatibilità” tra la stessa legge e la disciplina di cui al d.lgs. n. 36 del 2023 (cfr. pagg. 8 e ss. e pag. 24, memoria depositata in data 29 marzo 2024). Con riferimento all’asserita incompatibilità della disciplina dell’equo compenso con il diritto eurounitario, in giurisprudenza si è già condivisibilmente affermato come la prima “non sia in grado di pregiudicare l’accesso, in condizioni di concorrenza normali ed efficaci, al mercato italiano da parte di operatori economici di altri Stati dell’Unione Europea […]. Si tratta […] di un rafforzamento delle tutele e dell’interesse alla partecipazione alle gare pubbliche, rispetto alle quali l’operatore economico, sia esso grande, piccolo, italiano o di provenienza UE, è consapevole del fatto che la competizione si sposterà eventualmente su profili accessori del corrispettivo globalmente inteso (ad esempio, […] sulle spese generali) e, ancor di più sul profilo qualitativo e tecnico dell’offerta formulata. […] il meccanismo derivante dall’applicazione della legge n. 49/2023 è tale da garantire sia dei margini di flessibilità e di competizione anche sotto il profilo economico, sia la valorizzazione del profilo qualitativo e del risultato, in piena coerenza con il dettato normativo nazionale e dell’Unione Europea” (Tar Veneto, sez. III, 3 aprile 2024, n. 632). Neppure potrebbe giungersi a conclusioni diverse in forza del richiamo fatto dalla ricorrente alla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea e, in particolare, alla sentenza 4 luglio 2019, nella causa C-377/17 – pronuncia che non afferma, invero, la sussistenza di preclusioni assolute, riconoscendo, viceversa, in capo agli Stati Membri il potere di introdurre tariffe minime per le prestazioni professionali che siano non discriminatorie, necessarie e proporzionate alla realizzazione di un motivo imperativo di interesse generale ex art. 15, par. 3, della direttiva 2006/123/CE – o alla recente sentenza 25 gennaio 2024, nella causa C-438/22 (pag. 14 memoria di parte ricorrente depositata il 29 marzo 2024), che ha affermato l’obbligo di rifiutare l’applicazione di una normativa che fissi importi minimi degli onorari degli avvocati. Va, infatti, considerato che nel caso oggetto di quest’ultima pronuncia gli importi erano stati determinati dal Consiglio superiore dell’Ordine forense della Bulgaria “in assenza di qualsiasi controllo da parte delle autorità pubbliche e di disposizioni idonee a garantire che esso si comporti quale emanazione della pubblica autorità” […] Va altresì escluso l’ipotizzato (dalla ricorrente) “disallineamento” tra la legge n. 49/2023 e il d.lgs. n. 36/2023, alla luce dell’indirizzo secondo cui “un’antinomia può configurarsi “in concreto” allorché – in sede di applicazione – due norme connettono conseguenze giuridiche incompatibili ad una medesima fattispecie concreta. […] Nell’ipotesi in esame, l’interpretazione letterale e teleologica della legge n. 49/2023 depone in maniera inequivoca per la sua applicabilità alla materia dei contratti pubblici” (Tar Veneto, n. 632/2024, cit.). In particolare, non merita accoglimento la tesi di parte ricorrente laddove esclude che “la disciplina dettata dalla L. 49/2023 sia idonea a perseguire il proprio obiettivo anche in materia di appalti pubblici”, in quanto nessuna esigenza di protezione vi sarebbe “quando la prestazione avviene istituzionalmente tramite il libero confronto tra gli operatori” alla “presenza di offerte libere e adeguatamente ponderate da parte degli offerenti” e con la garanzia di “adeguati meccanismi atti proprio ad evitare la presentazione di offerte eccessivamente basse e quindi non sostenibili (anomalia dell’offerta)” (pag. 15, memoria 29 marzo 2024). Invero, la legge n. 49/2023, oltre a perseguire obiettivi di protezione del professionista, mediante l’imposizione di un’adeguata remunerazione per le prestazioni da questi rese, contribuisce, tra l’altro, analogamente al richiamato giudizio di anomalia dell’offerta, a evitare che il libero confronto competitivo comprometta gli standard professionali e la qualità dei servizi da rendere a favore della pubblica amministrazione. Risulta dunque indimostrato che la legge sull’equo compenso venga a collidere con le disposizioni del codice dei contratti pubblici che assicurano il confronto competitivo tra gli operatori; del resto, analoghe perplessità non nutre il ricorrente in relazione ad altre disposizioni parimenti poste a presidio dell’esatto adempimento, come, appunto, quelle in materia di anomalia (la cui finalità è di “evitare che offerte troppo basse espongano l’amministrazione al rischio di esecuzione della prestazione in modo irregolare e qualitativamente inferiore a quella richiesta e con modalità esecutive in violazione di norme, con la conseguente concreta probabilità di far sorgere contestazioni e ricorsi”, Cons. Stato, sez. V, 27 settembre 2022, n. 8330). La prospettata incompatibilità tra la legge sull’equo compenso e il codice dei contratti pubblici è in ogni caso smentita dal dato testuale. Da un lato, la legge n. 49/2023 prevede esplicitamente l’applicazione alle prestazioni rese in favore della P.A., senza esclusioni, dall’altro lato, l’art. 8 del d.lgs. n. 36/2023 impone alle pubbliche amministrazioni di garantire comunque l’applicazione del principio dell’equo compenso nei confronti dei prestatori d’opera intellettuale (salvo che in ipotesi eccezionali di prestazioni rese gratuitamente). Né può condividersi l’ulteriore argomento basato sull’asserita diversità del tenore letterale dei commi 1 e 3 dell’art. 2 della l. n. 49 del 2023. In particolare, la società ricorrente valorizza la circostanza che, se, da un lato, il comma 1 del predetto art. 2 ha cura di specificare che l’equo compenso si applica ai rapporti aventi a oggetto la prestazione d’opera intellettuale ex art. 2230 c.c., regolamentati da convenzioni aventi a oggetto lo svolgimento, anche in forma associata o societaria, delle attività professionali prestate a favore di imprese bancarie e assicurative, delle loro società controllate e delle loro mandatarie, imprese che, nell’anno precedente al conferimento dell’incarico, hanno occupato alle proprie dipendenze più di 50 lavoratori ovvero hanno presentato ricavi annui superiori a 10 milioni di euro, dall’altro lato, il comma 3 si limita a prevedere “lapidariamente” l’applicabilità della legge alle “prestazioni rese dai professionisti in favore della Pubblica Amministrazione”. In sintesi, secondo parte ricorrente, nel “declinare la disciplina dell’equo compenso anche in relazione ai servizi intellettuali forniti alla p.a., significativamente, la norma [farebbe] riferimento ai soli professionisti senza estendere il campo di applicazione anche ai servizi forniti dai medesimi in forma associata o societaria” (pag. 25, memoria 29 marzo 2024). Nei rapporti con la P.A., la legge sull’equo compenso sarebbe cioè applicabile esclusivamente alle prestazioni rese da singoli liberi professionisti, che trovino “fondamento in un contratto d’opera caratterizzato dall’elemento personale” (“in cui il singolo professionista assicura lo svolgimento della relativa attività principalmente con il proprio lavoro autonomo”, pag. 17, memoria 29 marzo 2024), con l’esclusione, invece, delle prestazioni rese da società e imprese, laddove vi è “una articolata organizzazione di mezzi e risorse e […] assunzione del relativo rischio imprenditoriale” (pag. 17, memoria 29 marzo 2024, e pag. 30, ricorso). Ciò in quanto soltanto il professionista singolo si troverebbe nella condizione del “contraente debole” da tutelare, mentre nei confronti di chi esercita la professione in forma associata o societaria, vi sarebbe un “certo grado di minore dominanza della posizione degli Enti pubblici” (cfr. pag. 25, memoria 29 marzo 2024). La prospettazione non è condivisibile. In primo luogo, la scelta di applicare la disciplina sull’equo compenso esclusivamente alle prestazioni di natura intellettuale rese in favore della P.A. dal singolo professionista, che non necessiti (o comunque non si avvalga) di un’organizzazione di mezzi e risorse, sarebbe difficilmente giustificabile dal punto di vista logico, considerata l’ontologica corrispondenza tra le prestazioni rese dal singolo e quelle rese nell’ambito di una società/impresa (tanto più che per “servizi di natura intellettuale” oggetto di appalto, come i servizi di ingegneria e architettura, si intendono “quelli che richiedono lo svolgimento di prestazioni professionali, svolte in via eminentemente personale, costituenti ideazione di soluzioni o elaborazione di pareri, prevalenti nel contesto della prestazione erogata rispetto alle attività materiali e all’organizzazione di mezzi e risorse”; Cons. Stato, sez. V, 21 febbraio 2022, n. 1234). Inoltre, considerato che, da un lato, l’ordinamento lascia libero il professionista di scegliere di svolgere la propria attività come singolo o in forma associata e che, dall’altro, lo stesso art. 66 del d.lgs. n. 36/2023 stabilisce che “[s]ono ammessi a partecipare alle procedure di affidamento dei servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria nel rispetto del principio di non discriminazione fra i diversi soggetti sulla base della forma giuridica assunta: a) i prestatori di servizi di ingegneria e architettura: i professionisti singoli, associati, le società tra professionisti di cui alla lettera b), le società di ingegneria di cui alla lettera c), i consorzi, i GEIE, i raggruppamenti temporanei fra i predetti soggetti (…)”, imporre il rispetto della norma sull’equo compenso soltanto per le prestazioni rese dal professionista che operi (e partecipi a una procedura a evidenza pubblica) uti singuli avrebbe l’effetto di concretizzare una inammissibile disparità di trattamento tra quest’ultimo e i professionisti che, viceversa, operino (e concorrano) nell’ambito di società, associazioni o imprese, i quali ultimi potrebbero in ipotesi trarre vantaggio dalla mancata applicazione della normativa in materia di equo compenso e quindi praticare ribassi sui compensi (con la presentazione di offerte verosimilmente più “appetibili”). Né può ravvisarsi un’incompatibilità tra la legge sull’equo compenso e l’art. 108, co. 2, del codice dei contratti pubblici, nella parte in cui impone l’applicazione del “criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo” ai “contratti relativi all’affidamento dei servizi di ingegneria e architettura e degli altri servizi di natura tecnica e intellettuale di importo pari o superiore a 140.000 euro”. E invero, la legge n. 49/2023 non preclude l’applicabilità ai contratti in questione del criterio di aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa: il compenso del professionista è, infatti, soltanto una delle componenti del “prezzo” determinato come importo a base di gara, al quale si affiancano altre voci, relative in particolare a “spese ed oneri accessori” […] Infine, non si può ritenere che l’art. 41, comma 15, e l’all. I.13 al d.lgs. n. 36/2023 individuino nelle tariffe professionali i criteri per la determinazione del (solo) importo da porre a base di gara, non precludendo affatto l’applicabilità di un ribasso alla base d’asta così composta (cfr. pag. 23, memoria parte ricorrente 29 marzo 2024). Delle disposizioni da ultimo menzionate va, infatti, offerta un’interpretazione coerente con il richiamato art. 8 dello stesso d.lgs. n. 36/2023, ai sensi del quale, come detto, le pubbliche amministrazioni debbono garantire comunque l’applicazione del principio dell’equo compenso nei confronti dei prestatori d’opera intellettuale. Chiariti la portata delle norme in materia di equo compenso e il rapporto con le norme del d.lgs. n. 36/2023”.
Cons. Stato, sez. V, sent. n. 3663/2024: negli accordi quadro i requisiti vanno commisurati all’importo totale del contratto e non ai singoli interventi.
Nella procedura di gara per l’affidamento di un accordo quadro, relativo ad una pluralità di distinti interventi, i requisiti di qualificazione vanno commisurati all’intero importo dell’accordo quadro e non ai singoli interventi attivati con specifici contratti attuativi.
Il principio della proporzionalità dei requisiti – art. 10 del d.lgs. n. 36/2023 – va inteso nel senso che il favore per la più ampia partecipazione alle gare e per l’accesso al mercato deve essere interpretato in maniera che sia compatibile con le specificità proprie dell’oggetto del contratto e con l’esigenza di realizzare economie di scala funzionali alla riduzione della spesa pubblica.
Nel caso esaminato dal Consiglio di Stato, la procedura di gara era finalizzata all’individuazione di un contraente con cui una Provincia doveva stipulare un accordo quadro. Per la realizzazione dei singoli interventi, invece, ogni ente interessato (la stessa Provincia ed i Comuni) avrebbero poi stipulato specifici contratti attuativi.
In questo contesto, il disciplinare di gara prevedeva un valore minimo complessivo per l’intero investimento e specifici valori minimi per ciascun investimento di ogni singolo ente concedente.
Tra i requisiti di qualificazione relativi alla capacità tecnica e organizzativa era previsto il possesso dell’attestazione SOA nella pertinente categoria di specializzazione (OG10) per una classifica almeno pari all’importo dei lavori oggetto di offerta.
In fase di gara l’aggiudicatario presentava un’attestazione SOA per una classifica di importo commisurata ai singoli autonomi interventi da eseguire in favore di ogni ente concedente.
L’aggiudicazione veniva impugnata davanti al Giudice amministrativo da parte del concorrente secondo classificato in graduatoria.
Tra i diversi motivi di ricorso, veniva avanzato quello relativo alla ritenuta mancanza dei requisiti di qualificazione in capo all’aggiudicatario, in quanto quest’ultimo risultava in possesso di un’attestazione SOA per un importo sufficiente solo se riferito ai singoli interventi attivati con i distinti contratti attuativi. Al contrario, secondo il ricorrente, l’importo da prendere in considerazione al fine di valutare il possesso del requisito indicato era quello complessivo dell’accordo quadro.
Questa prospettazione è stata condivisa dal TAR Liguria sulla base delle seguenti considerazioni. In primo luogo, un argomento di natura testuale, derivante dalla formulazione della clausola del disciplinare di gara secondo cui il requisito del possesso della SOA nella categoria OG10 andava riferito all’importo dei lavori di riqualificazione che l’aggiudicatario si impegnava ad eseguire sulla base dell’offerta tecnica e economica; clausola che non contiene alcun riferimento ai singoli contratti attuativi attivabili dai diversi enti concedenti.
A ciò si aggiunge una considerazione di natura sistematica. L’affidamento prevede come ipotesi fisiologica che l’aggiudicatario esegua i lavori relativi ai singoli interventi attivati con i singoli contratti attuativi in maniera contestuale. Di conseguenza, in un’ottica finalistica e tenuto conto del carattere unitario della procedura di gara, la sua capacità tecnica – di cui il requisito dell’attestazione SOA è espressione – non può che essere correlata all’intero importo dell’accordo quadro.
Contro la sentenza di primo grado il soccombente ha proposto appello al Consiglio di Stato, sviluppando una serie di motivi di censura.
Con il primo motivo l’appellante ha evidenziato come il Giudice di primo grado abbia erroneamente interpretato il disciplinare di gara, ritenendo – diversamente da quanto affermato nella pronuncia appellata - che il requisito dell’attestazione SOA dovesse essere parametrato all’importo dei singoli interventi separatamente considerati, anche in considerazione del fatto che l’offerta tecnica doveva essere redatta con specifico riferimento a ognuno degli stessi. Inoltre, anche l’offerta economica doveva essere formulata in maniera distinta per ciascun ente concedente, in termini di aumento rispetto all’investimento minimo indicato a base di gara.
In questa logica, secondo l’appellante sarebbero i singoli contratti attutivi a dar vita a distinti rapporti concessori, ognuno dei quali sarebbe disciplinato in maniera autonoma in termini di diritti e obblighi delle parti, e quindi anche in relazione all’obbligo di effettuare i lavori di riqualificazione degli impianti. Con la conseguenza che anche l’attestazione SOA andava riferita all’importo dei singoli investimenti, separatamente considerati.
In ogni caso, a fronte di una clausola del disciplinare di gara non chiara, vale il principio secondo cui la stessa deve essere interpretata nel senso di favorire la massima partecipazione.
Tuttavia, l’aggiudicazione non avrebbe dato luogo a un unico contratto di concessione con la Provincia, ma a distinti contratti con i diversi enti concedenti (la stessa Provincia e i Comuni per i quali la stazione unica appaltante aveva operato), né sarebbe convincente l’argomento sviluppato dal Giudice di primo grado, relativo alla contestualità degli interventi da eseguire. Tale contestualità, infatti, rappresenta una mera eventualità, tutta da verificare in relazione all’autonomia degli interventi e dei relativi affidamenti operati dai singoli enti concedenti.
Il Consiglio di Stato, confermando la tesi del Giudice di primo grado, ha rilevato: quanto al primo profilo, che la circostanza che la clausola del disciplinare faccia riferimento “all’importo dei lavori di riqualificazione”, utilizzando quindi il singolare, è indice del fatto che si è voluto prendere in considerazione l’importo totale degli interventi complessivi oggetto di affidamento, e non l’importo dei singoli interventi. La parcellizzazione degli interventi proposta dall’appellante collide peraltro con il carattere unitario della procedura di gara, coerente con la volontà di concludere un accordo quadro. Ne consegue che gli interventi vanno considerati nella loro unitarietà e i requisiti di qualificazione vanno commisurati all’importo complessivo degli stessi.
L’interpretazione letterale è, poi, confermata anche da quella finalistica, riferita alla ratio della clausola del disciplinare. Infatti, dovendo i contratti attuativi essere eseguiti nello stesso arco temporale e trovando gli stessi origine nell’unico accordo quadro, risulta logico e coerente che il concorrente debba essere in grado di dimostrare di possedere i prescritti requisiti per far fronte al complesso delle prestazioni che ne derivano.
Da ultimo, non vale neanche richiamare in chiave interpretativa il principio di proporzionalità, così come sancito dall’art. 10, co. 3, del d.lgs. n. 36. Tale principio viene, infatti, articolato nel senso che gli enti appaltanti possono introdurre requisiti speciali di qualificazione “attinenti e proporzionati” all’oggetto del contratto, tenendo conto dell’interesse pubblico alla massima partecipazione alle gare e favorendo l’accesso al mercato delle micro, piccole e medie imprese. Ciò, tuttavia, con due limiti: la compatibilità con le prestazioni da acquisire e l’esigenza di realizzare economie di scala funzionali alla riduzione della spesa pubblica.
In sostanza, il principio di favore per il massimo accesso al mercato viene temperato nella sua declinazione operativa dalla necessità di tenere conto di altre esigenze, e cioè la compatibilità dei requisiti richiesti con l’oggetto e le prestazioni dedotte nel contratto da affidare e l’esigenza di realizzare economie di scala in funzione del contenimento della spesa pubblica.