Rubrica di aggiornamento legislativo e giurisprudenziale - novembre 2017
Cass. Civile, Sez. II, 7/11/17, n. 26354: limiti di distanza tra fabbricati e piani particolareggiati.
La Suprema Corte è ritornata ad esplicitare la portata normativa dell’art. 9, d.m. 2 aprile 1968 n. 1444, disposizione dettata in tema di distanza tra fabbricati. In particolare, con la sentenza in commento, la Corte ha dato continuità ad un indirizzo interpretativo consolidato in giurisprudenza.
L’art. 9 d.m. n. 1444/1968 definisce le distanze minime di sicurezza da rispettare in caso di nuova costruzione. Ai sensi di tale norma, le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:
- quanto alla Zona A, per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale;
- per i nuovi edifici ricadenti in altre zone, è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di 10 m tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti;
- quanto alla Zona C, è prescritta, tra pareti finestrate di edifici antistanti, la distanza minima pari all’altezza del fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si fronteggino per uno sviluppo superiore a 12 m.
Inoltre, le distanze minime tra fabbricati tra i quali siano interposte strade destinate al traffico dei veicoli (con esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di singoli edifici o di insediamenti) devono corrispondere alla larghezza della sede stradale maggiorata di:
- 5 m per lato, per strade di larghezza inferiore a 7 m;
- 7,5 m per lato, per strade di larghezza compresa tra 7 m e 15 m;
- 10 m per lato, per strade di larghezza superiore a 15 m.
Qualora poi le distanze tra fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori all’altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all’altezza stessa.
Invece, l’ultimo comma della disposizione prevede un regime derogatorio che trova applicazione solo in casi eccezionali. Ai sensi della norma, infatti, “Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni plano volumetriche”.
A più riprese, la Suprema Corte ha precisato il tenore normativo dell’art. 9 d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, specificandone innanzitutto l’ambito di applicazione. L’art. 9 si rivolge direttamente ai Comuni, imponendo loro determinati limiti edilizi nella formazione o nella revisione degli strumenti urbanistici. La norma, pertanto, non è immediatamente operante nei rapporti tra i privati, finché tali limiti non siano stati inseriti negli strumenti appositamente formati o revisionati. Da tale rilievo deriva che l'adozione da parte degli enti locali di strumenti urbanistici contrastanti con la citata norma consente al giudice di merito di disapplicare le disposizioni illegittime e di sostituirle immediatamente con quelle prescritte dall’art. 9 (Cass. civ., Sez. Un. n. 1486/1997, recentemente ribadita da Cass. Civ., Sez. II, n. 23681/16 e n. 9915/17).
La disciplina dettata dall’art. 9, co. 1, in secondo luogo, è generale e inderogabile. Essa, dunque, impone di non fissare distanze minime inferiori a quelle prescritte dalla norma, salvo nei limiti indicati nell’ultimo comma. A questo riguardo, con la sentenza in commento, la Suprema Corte ha ribadito che “l’ipotesi derogatoria contemplata dal d.m. 2 aprile 1968, n. 1968, art. 9, u.c., che consente ai comuni di prescrivere distanze inferiori a quelle previste dalla normativa statale ove le costruzioni siano incluse nel medesimo piano particolareggiato o nella lottizzazione (..), riguarda soltanto le distanze tra costruzioni insistenti su fondi che siano inclusi tutti in un medesimo piano particolareggiato o per costruzioni entrambe facenti parte della medesima lottizzazione convenzionata (..). ove le ostruzioni non siano comprese nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione, la disciplina sulle relative distanze non è, quindi, recata dal d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9, u.c., bensì dal comma 1 dello stesso art. 9”.
Tale interpretazione risulta conforme a quanto in via generale espresso dalla Corte Cost. 23 gennaio 2013 n. 6, ossia che l’art. 9, u.c. costituisce una “sintesi normativa”, consentendo che siano fissate distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, pur provvista di “efficacia precettiva e inderogabile”, solo nei limiti ivi indicati, ovvero a condizione che le deroghe dell’ordinamento civile delle distanze tra edifici siano “inseriti in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio”.
Avv. Cristina A. Gagliano
Tribunale di Roma, Sez. XIII, 4/10/2017 n. 18686: il mancato deposito del capitolato speciale d’appalto rende non verificabile la responsabilità del professionista!
Con una recentissima sentenza in materia di responsabilità professionale, il Tribunale di Roma ha dichiarato infondata la domanda risarcitoria attorea per mancanza di prova del danno allegato.
Nella specie, la società ricorrente evocava in giudizio un architetto, che aveva assunto la qualità di direttore dei lavori per un appalto, affinché ne venisse accertata la responsabilità contrattuale nell’esercizio delle proprie prestazioni. Al professionista si contestava l’omessa predisposizione di misure tecniche necessarie a garantire la corretta esecuzione delle opere, l’asseverazione unilaterale circa l’esecuzione dell’opera a regola d’arte prima dell’esecuzione dei lavori nonché la circostanza che il professionista aveva omesso di relazionarsi con la società committente, al fine di consentirle di tutelarsi dalle inadempienze della ditta esecutrice.
Tuttavia, con la pronuncia in commento, il Tribunale adito ha dichiarato infondata la domanda attrice, basandosi sulla mancanza di un presupposto indispensabile per il risarcimento, ossia la prova del danno. Innanzitutto, il Tribunale di Roma ha evidenziato che, pur apparendo dimostrata l’esistenza di un rapporto di mandato professionale intercorso fra le parti, la richiesta di parte attrice di condanna dell’architetto al risarcimento del danno derivante dalle sue omissioni professionali appariva infondata per mancanza di prova fornita in ordine alla negligenza del convenuto e alla sussistenza del danno asseritamente subito.
Come evidenziato: “A fronte di tale danno allegato, tuttavia, si osserva che parte attrice non ha depositato in atti il capitolato di appalto (..). Il mancato deposito di tale capitolato d’appalto rende non verificabile se, all’interno del medesimo, fossero state previste delle specifiche pattuizioni relative all’esecuzione dei lavori volte a prevedere degli obblighi di comunicazione del direttore dei lavori, in relazione alle varie fasi ed in particolare al momento della attestazione di fine lavori, nei confronti della parte committente dell’appalto”.
In definitiva, in assenza della produzione del capitolato d’appalto, contenente l’esatta descrizione dei lavori da eseguire, risultava difficile verificare in giudizio, attraverso l’istruttoria, che vi fosse stata o meno una incompleta o viziata esecuzione dei lavori da parte della ditta esecutrice; circostanza, questa, sufficiente ad escludere la invocata responsabilità risarcitoria del professionista.
Avv. Giuseppe Acierno
Cass. penale, Sez. IV, 10/5/16, n. 36285: responsabilità del professionista e sicurezza dell’edificio.
Il tema oggetto della segnalata pronuncia è quello dell’attribuzione al professionista, che sia chiamato ad occuparsi di lavori che incidono su una limitata porzione dell’edificio, dell’obbligo di garantire sia la corretta esecuzione dei lavori affidati sia la complessiva sicurezza dell’edificio.
Nella vicenda in esame, un professionista era stato incaricato da un condominio di progettare e dirigere i lavori per opere di manutenzione straordinaria (consistenti nell’incamiciatura di sei pilastri in calcestruzzo armato) di un palazzo sito in L’Aquila. A seguito del crollo dell’edificio, dovuto al noto sisma del 2009, il professionista veniva convenuto in giudizio per vedersi contestare, oltre all’omessa vigilanza sulla corretta esecuzione dei lavori, l’attestazione che le realizzate opere di manutenzione rispondevano alle norme edilizie, urbanistiche e di sicurezza vigenti. Sicché, in ultima analisi, si evidenziavano in giudizio i profili di negligenza, imprudenza ed imperizia del professionista nell’espletamento dell’incarico affidatogli, per non avere effettuato quest’ultimo, né in via preventiva né in via successiva, idonea valutazione di adeguatezza statica e sismica delle strutture dell’edificio.
Orbene, sebbene “Non sembra seriamente discutibile – osserva la Cassazione - che il progettista e direttore dei lavori sia tenuto a garantire che gli stessi siano eseguiti a regola d'arte: lo è sulla scorta del contratto che lo lega al committente”, al contempo, “è palese che l’obbligo di garanzia non può andare oltre l’oggetto del rapporto contrattuale; e quindi non può concernere opere che non siano investite dell’attività del progettista e/o direttore dei lavori. Ove si tratti di opere del tutto autonome rispetto ad altre già esistenti in situ o in via di realizzazione non può pretendersi dal tecnico delle prime che si faccia carico della conformità e più genericamente della sicurezza di opere rispetto alle quali non vi è norma di diritto privato o di diritto pubblico che gli riconosca un potere di intervento”.
Nel caso di specie, la Corte ha osservato che l’edificio in questione (come risultava da accertamento giudiziario), sin dal momento della sua risalente realizzazione, nascondeva gravissime fragilità strutturali, effetto di errori di valutazione compiuti dai progettisti e dalla ditta esecutrice dei lavori di edificazione, soprattutto per quanto riguardava la qualità del calcestruzzo utilizzato. E, per altro verso, il professionista incaricato delle opere di manutenzione straordinaria aveva il solo obbligo giuridico di osservare la normativa antisismica all’epoca vigente, la quale implicava l’accertamento della consistenza dei pilastri sui quali eseguire l’intervento.
“Non si è affermato, quindi, un obbligo di intervento o di segnalazione di difetti che attenevano a ulteriori e differenti porzioni dell'edificio; ma di un obbligo delimitato all'opera affidata alle cure del” direttore dei lavori, osserva la Cassazione. “E occorre intendersi: non già di un obbligo di segnalazione ai committenti ma di un obbligo di ben eseguire il mandato conferito; il che avrebbe di per sé attivato una serie di effetti a cascata senza alcun ulteriore intervento del” direttore dei lavori, “poiché - … - sarebbe stato compito del committente nominare il collaudatore e questi sarebbe stato tenuto a riportare al medesimo l'esito – che si può certamente ritenere negativo - del collaudo”.
Avv. Davide Ferrara