Rubrica di aggiornamento legislativo e giurisprudenziale n. 3 del 03 settembre 2015
L’ambito dell’esclusiva degli architetti sulle opere edilizie sottoposte a tutela dei beni culturali è stato oggetto di un vivace dibattito, tanto tra le corte amministrative, quanto tra i vari ordini professionali. Tra questi, quelli degli architetti propugnano un’interpretazione restrittiva della norma che fonderebbe tale esclusiva (art. 52 R.D. n. 2537/1925), mentre quelli degli ingegneri, come è ovvio, provano ad accreditarne un’applicazione meno rigorosa, denunciandone persino il preteso contrasto con l’ordinamento comunitario.
Il dibattito non si è sopito nemmeno dopo la sentenza della Corte di Giustizia (21 febbraio 2013, causa C-111-12) che è intervenuta ex professo sulla questione e la successiva sentenza del Consiglio di Stato (Sez. VI, 9 gennaio 2014, n. 21) che ha definito il giudizio in senso sfavorevole alle tesi sostenute dagli ingegneri.
In effetti, la norma, redatta 90 anni fa, lascia qualche dubbio interpretativo, soprattutto a motivo dell’utilizzo di termini ed espressioni – figlie del contesto ordinamentale in cui a suo tempo si inserivano – che, però, hanno col tempo perso pregnanza mano a mano che progrediva e si specializzava la legislazione ordinistica sui lavori pubblici.
Partiamo, dunque, dalla lettura delle norme di riferimento, ossia degli artt. 51 e 52 R.D. n. 2537/1925:
Art. 51: “Sono di spettanza della professione d'ingegnere, il progetto, la condotta e la stima dei lavori per estrarre, trasformare ed utilizzare i materiali direttamente od indirettamente occorrenti per le costruzioni e per le industrie, dei lavori relativi alle vie ed ai mezzi di trasporto, di deflusso e di comunicazione, alle costruzioni di ogni specie, alle macchine ed agli impianti industriali, nonché in generale alle applicazioni della fisica, i rilievi geometrici e le operazioni di estimo”.
Art. 52: “Formano oggetto tanto della professione di ingegnere quanto di quella di architetto le opere di edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le operazioni di estimo ad esse relative. Tuttavia le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico ed il restauro e il ripristino degli edifici contemplati dalla L. 20 giugno 1909, n. 364, per l'antichità e le belle arti, sono di spettanza della professione di architetto; ma la parte tecnica ne può essere compiuta tanto dall'architetto quanto dall'ingegnere”.
Alcuni punti fermi.
Nessun dubbio sul fatto che sulle opere diverse dall’edilizia civile (es. condutture fognarie, reti stradali, etc.) l’ingegnere ha competenza esclusiva ai sensi dell’art. 51. In questo senso si è espressa costantemente la giurisprudenza amministrativa di primo e secondo grado. Tra i tanti, cfr. Cons. Stato, sez. VI, n. 1150/2013; Sez. IV, n. 2938/2000; Tar Sicilia, Palermo, n. 2274/2002; Tar Calabria, n. 354/2008; Tar Veneto, n. 1153/2011; Tar Puglia, Lecce, n. 1270/2013; TAR Lazio, Latina, n. 608/2013.
Nemmeno è dubbio che l’art. 52 ponga una regola (competenza promiscua per le opere di edilizia civile), un’eccezione (competenza esclusiva dell’architetto per le opere sottoposte a tutela ai sensi della legge fondamentale del 1939, oggi Codice Urbani, ovvero per le opere, anche di nuova realizzazione, comunque giudicate “di rilevante carattere artistico” pur non essendo sottoposte a tutela), ed un’eccezione all’eccezione (la “parte tecnica” è comunque sempre di competenza promiscua) che vale a ristabilire la regola generale (competenza promiscua).
E, ancora, è pacifico che la competenza esclusiva dell’architetto può essere predicata anche con riferimento d un’opera (ovvero: bene immobile) non sottoposto a tutela ma comunque “di rilevante carattere artistico”, cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 30 aprile 2002, n. 2303; Tar Lombardia, Milano, 24 luglio 2014, n. 2016).
Dove, invece, si avverte il bisogno di un intervento chiarificatore, anche, se del caso, in sede di interpretazione autentica, è in ordine agli esatti confini dell’eccezione all’eccezione. Che vuole dire, “tradotto” nel linguaggio dei lavori pubblici (ovvero: dei servizi attinenti l’architettura e l’ingegneria), “parte tecnica” di un’opera di edilizia civile sottoposta a tutela o comunque di rilevante interesse artistico? Alcune corti amministrative non hanno dubbi: progettazione esecutiva e direzione lavori costituiscono la “parte tecnica” e possono essere svolte anche dagli ingegneri, pur quando si tratti di beni sottoposti a tutela (Tar Lazio, 30 marzo 2015, n. 4713: “La stesura del progetto esecutivo, quindi, si presenta come la ingegnerizzazione del progetto definitivo, in modo tale che la relativa attività può essere demandata anche ad ingegneri, senza alcun contrasto con la previsione di cui all’articolo 52, comma 2, del richiamato R.D. n. 2537 del 1925”; Cons. Stato, Sez. VI, 9 gennaio 2014, n. 21, secondo cui l’ambito dell’esclusiva riguarda soltanto “le parti di intervento di edilizia civile che riguardino scelte culturali connesse alla maggiore preparazione accademica conseguita dagli architetti nell’ambito del restauro e risanamento degli immobili di interesse storico e artistico”, restando invece nella competenza dell’ingegnere civile la cd. parte tecnica, ossia “le attività progettuali e di direzione dei lavori che riguardano l’edilizia civile vera e propria (…)” (in tal senso: Cons. Stato, VI, 11 settembre 2006, n. 5239)”.
In particolare, non sembra agevole individuare in modo univoco, con un criterio ex ante, “le parti di intervento di edilizia civile che riguardino scelte culturali connesse alla maggiore preparazione accademica conseguita dagli architetti”. Ed è perciò che è auspicabile un intervento chiarificatore del legislatore, in difetto del quale la soluzione del caso concreto sarà affidata, di volta in volta, alla “sensibilità” dell’interprete.
avv. Riccardo Rotigliano rrotigliano@scozzarirotigliano.com www.scozzarirotigliano.comAutorità Nazionale Anticorruzione, parere n. 130 del 22/07/15: principio di stabilità della soglia di anomalia ex art. 39, co. 1, D.L. n. 90/2014.
Con un importante parere del 22 luglio 2015, l’ANAC interviene sull’applicazione della disposizione introdotta dal D.L. 90/14 in tema di immodificabilità delle medie sulle quali calcolare la soglia di anomalia a valle delle fasi di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte. Questo il testo della norma: “ogni variazione che interviene successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte non rileva ai fini del calcolo delle medie nella procedure, né per l’individuazione della soglia di anomalia delle offerte” (art. 38, co. 2 bis, D. Lgs. n. 163/06).
Il parere in rassegna affronta il caso di una procedura aperta per l’aggiudicazione di lavori di realizzazione di un centro servizi. Dopo che il seggio di gara aveva aggiudicato provvisoriamente i lavori, alcune imprese formulavano altrettante istanze di riesame avverso le loro rispettive esclusioni. In particolare:
- una di esse era stata esclusa per avere prodotto un contratto di avvalimento relativo ad una categoria SOA non contemplata nel bando. L’impresa reclamava la riammissione, producendo un nuovo contratto di avvalimento;
- altre tre, invece, perché facenti parte di un consorzio stabile che aveva partecipato anch’esso alla procedura, senza, però, designarle come esecutrici. Secondo le 3 imprese, però, tale esclusione è illegittima, dal momento che il divieto di contemporanea partecipazione opera solo per il consorziato designato come esecutore dal consorzio stabile che partecipa anch’esso alla gara.
Tutti e 4 i reclami sono stati accolti dalla stazione appaltante. Secondo l’ANAC, però, l’operato dell’Amministrazione è illegittimo. Infatti, per quanto in linea astratta la produzione postuma del contratto di avvalimento sia legittima, essa tuttavia presuppone che il documento esista già alla data di scadenza del termine per la presentazione della domanda (mentre nel caso affrontato, il contratto recava una data successiva). Per quanto riguarda, invece, l’altro motivo di esclusione, se in astratto è condivisibile la tesi giuridica propugnata dalle imprese escluse (cfr. parere n. 160/13), in concreto ostava al ricalcolo delle medie la già deliberata aggiudicazione provvisoria.
Sondo l’ANAC, l’Amministrazione ha violato lo spirito dell’art. 38, co. 2-bis, del Codice degli appalti. Infatti, la norma introdotta nel 2014 sancisce l’impossibilità di rivedere la soglia di anomalia delle offerte a seguito dell’aggiudicazione provvisoria. Tale principio, “che vuole evitare una fluttuazione perpetua di quanto acquisito nella fase procedimentale precedente”, è stato inoltre confermato da una recentissima pronuncia del Consiglio di Stato (Sez. V, 26/05/2015, n. 2609), il quale ha precisato che, una volta effettuato il calcolo della media, ed individuata la soglia di anomalia, qualsiasi successiva variazione, anche discendente da una pronuncia giurisdizionale, non giustifica il suo rifacimento.
In altri termini, la nuova norma introdotta dal D.L. n. 90/2014 disconosce in radice qualunque forma di protezione giuridica per l’interesse sostanziale dell’impresa che prospetti la necessità della rinnovazione di una fase del procedimento, “in quanto il legislatore ha posto la regola della irrilevanza di alcune sopravvenienze, per rendere più stabili gli esiti finali del procedimento ed evitare che – anche ipoteticamente - possano esservi iniziative distorsive della leale concorrenza tra le imprese” (Cons. Stato, Sez. V, n. 2609/15 cit.).
avv. Riccardo Rotigliano rrotigliano@scozzarirotigliano.com www.scozzarirotigliano.comConsiglio di Stato, Sez. VI, 27/04/15, n. 3236: il parere reso dalla Soprintendenza oltre i termini non è più vincolante per l’Amministrazione procedente
Nell’esperienza quotidiana, i cittadini, e più degli altri i professionisti, si scontrano spesso con l’Amministrazione che resta in silenzio: che non esercita il potere (consultivo o di amministrazione attiva) che le è stato conferito. Per evitare che tale inerzia porti alla paralisi amministrativa, l’ordinamento giuridico appresta vari rimedi, dei quali si è già dato conto nella newsletter n. 2, a commento dell’art. 3 della c.d. Legge Madia.
Con la sentenza in commento, il Consiglio di Stato affronta il caso di un parere negativo reso dalla Soprintendenza ben oltre il termine all’uopo previsto dall’art. 146 del Codice Urbani (D. Lgs. n. 42/04) nell’ambito del procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica. In particolare, si trattava di stabilire se detto parere, reso oltre il termine di 45 giorni previsto dal comma 8, fosse da considerare tamquam non esset (nel presupposto che il decorso del termine “esaurisca” il potere della Soprintendenza), o fosse invece da considerare valido. Il Consiglio di Stato, come già il Giudice di primo grado, ritiene che il parere, per quanto tardivo, sia valido ed efficace. Tuttavia, ad avviso del Giudice Amministrativo questo non vuol dire che sia, anche, vincolante, come in generale lo è quello tempestivo. Infatti, il parere della Soprintendenza vincola l’amministrazione procedente (la quale, infatti, “provvede in conformità” ad esso, così il comma 8) soltanto se interviene nei 45 giorni prescritti dalla Legge. Per tale ragione, è stato ritenuto illegittimo il diniego di autorizzazione paesaggistica emesso da un ente locale, che si era limitato a richiamare il parere negativo della Soprintendenza, nel presupposto (come abbiamo visto: erroneo) della sua vincolatività. In altri termini, il parere tardivo può essere valutato dall’Amministrazione – insieme agli altri apporti istruttori acquisiti nel corso dal procedimento – ai fini del rilascio o del diniego dell’autorizzazione. Ma non può ad esso fare acriticamente rinvio.