Rubrica di aggiornamento legislativo e giurisprudenziale n. 2/settembre 2017
L’ampliamento del balcone è da considerarsi a tutti gli effetti un intervento di ristrutturazione edilizia
Ai sensi degli artt. 3 e 10 del Testo unico dell’edilizia (d.P.R. n. 380/2001), l’ampliamento di un balcone costituisce opera di ristrutturazione edilizia.
È quindi necessario il permesso di costruire, quale titolo abilitativo per la realizzazione dell’opera, la cui mancanza è sanzionata con l’obbligo del ripristino dello stato dei luoghi, ai sensi dell’art. 33 d.P.R. n. 380/2001. È quanto affermato dalla terza sezione del Tar Campania – Napoli, con la sentenza n. 4143 del 28 agosto 2017.
Le circostanze del fatto che hanno dato origine alla decisione riguardano i lavori di manutenzione straordinaria e risanamento conservativo operate dal ricorrente sul proprio balcone, contestata a seguito di sopralluogo da parte della Polizia Municipale, la quale ha rilevato l’ampliamento parziale del balcone e la contestuale assenza di legittimo titolo edilizio per il compimento dell’opera. A seguito di ciò, con ordinanza emanata dal Settore Urbanistica dell’Amministrazione Comunale è stata ingiunta al proprietario la sospensione e demolizione dell’opera, provvedimento impugnato dallo stesso dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale.
Il Tar ha rilevato che “l’opera realizzata dal ricorrente e contestata dal comune ha comportato un arbitrario ampliamento della superficie di un preesistente balcone in assenza di titolo, opera che – contrariamente agli assunti del ricorrente – non può costituire un intervento di semplice manutenzione né intervento di restauro e di risanamento conservativo, quand’anche fosse giustificato da reali esigenze di sicurezza e dal tentativo di ovviare al deterioramento imputabile alla vetustà ed agli agenti atmosferici”, in quanto “l’ampliamento di un balcone costituisce opera di ristrutturazione edilizia, ai sensi degli artt. 3 e 10 d.P.R. n. 380 del 2001, dal momento che realizza un'oggettiva trasformazione della facciata del palazzo, comportante modifica della sagoma, dei prospetti e delle superfici. Il titolo edilizio per la realizzazione di tale intervento risulta, quindi, essere il permesso di costruire e la sanzione per la sua assenza è il ripristino dello stato dei luoghi, ai sensi dell’art. 33 d.p.r. n. 380 del 2001”.
Non rileva, aggiunge il Collegio, il fatto che fosse stata presentata una denuncia di inizio attività in sanatoria, in quanto “la presenza dei vincoli paesaggistici ed ambientali sussistenti nel territorio del comune di San Sebastiano rendono la DIA, titolo edilizio non idoneo allo scopo, soprattutto se presentata, com’è nel caso in esame, a sanatoria di un abuso che ha comunque prodotto un aumento di superficie ed un cambio di prospetto. Sul punto si rammenta che, per gli interventi comportanti una trasformazione edilizia e urbanistica del territorio in area assoggettata a vincolo paesaggistico, quand'anche si ritenessero assentibili con mera D.I.A., l'applicazione della sanzione demolitoria è comunque doverosa, ove non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione paesistica”.
Dott.ssa Cristina Gagliano
Cambi di destinazione d’uso nei lavori di restauro e risanamento conservativo: sul punto interviene la giurisprudenza amministrativa
Nello scorso numero della newsletter si è riportato l’orientamento della Cassazione penale, sez. III, 14/2/2017, n. 6873 la quale ha affermato due principi in netta discontinuità rispetto al quadro legislativo e giurisprudenziale del settore: 1) il cambio di destinazione d'uso in centro storico non può rientrare nel restauro-risanamento conservativo, ma comporta sempre una ristrutturazione edilizia; 2) il cambio di destinazione d'uso in centro storico non può realizzarsi con Scia, ma necessita sempre del permesso di costruire.
Se sul primo punto era già intervenuto il Parlamento (si veda il n. 1 della newsletter di Settembre), sul secondo è di recente intervenuta la Terza sezione del Tar Toscana, con sentenza n. 1009 del 28 luglio 2017. Il caso prende le mosse dal ricorso di un istituto di credito che aveva presentato all’Amministrazione Comunale una Scia per un intervento di restauro conservativo di un immobile, non comportante alterazione della struttura o della suddivisione dei locali.
Con ordinanza comunale, nel solco dei principi affermati dalla suindicata Cassazione penale, veniva intimato il divieto di prosecuzione degli interventi ed il ripristino dello stato dei luoghi; da qui l’impugnazione di tale provvedimento dinanzi al Giudice Amministrativo.
A parere del Collegio toscano, le conclusioni alle quali è giunta la Cassazione penale “non sono condivisibili, in quanto hanno l’effetto di sancire una sostanziale equiparazione tra istituti che nel nostro ordinamento sono riconducibili a fattispecie del tutto differenti (la ristrutturazione edilizia e il restauro e il risanamento conservativo), prevedendo la necessità del permesso di costruire per il solo fatto che l’immobile insista nella “zona A” e, ciò, a prescindere da un esame delle caratteristiche del singolo intervento”.
Infatti, in accoglimento del ricorso, il Giudice Amministrativo ha statuito che: “affinché sia ravvisabile un intervento di ristrutturazione edilizia è necessario che sia stata modificata la distribuzione della superficie interna e i volumi, così configurandosi quel rinnovo degli elementi costitutivi e quell’alterazione dell’originaria fisionomia e consistenza fisica dell’immobile, incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento conservativo che, a loro volta, presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell’edificio e la distribuzione interna della sua superficie [...] E’ noto, infatti, che affinché un intervento edilizio possa essere qualificato come restauro e risanamento conservativo occorre che siano rispettati gli elementi tipologici, formali e strutturali dell'edificio senza modifiche all'identità, alla struttura e alla fisionomia dello stesso, essendo detto intervento diretto alla mera conservazione, mediante consolidamenti, ripristino o rinnovo degli elementi costitutivi, dell'organismo edilizio esistente, ed alla restituzione della sua funzionalità”.
Avv. Davide Ferrara
Società tra professionisti: le attività che possono essere organizzate in S.p.a..
Dal 1° gennaio 2012, anche a seguito dell’emanazione delle nuove regole per gli avvocati contenute nella legge 124/2017, è possibile costituire società che abbiano ad oggetto l’esercizio di attività riservate a iscritti a Ordini o Albi professionali (art. 10, l. 183/2011). La legge 183/2011 ha, infatti, abolito il divieto, contenuto nella legge 1815/1939, che consentiva l’aggregazione tra professionisti solo con la formula dello “studio associato”. Le S.t.p. possono indifferentemente essere società di persone, società di capitali e società cooperative; ed è previsto che esse evidenzino la loro particolare natura rispetto alle società “normali” apponendo, nella ragione sociale, l’espressione “società tra professionisti”.
Dalla scelta della forma sociale deriva l’applicazione delle regole relative a ciascun tipo: ad esempio, le norme in tema di responsabilità patrimoniale dei soci, di dotazione patrimoniale minima, di strutturazione organica della società. Anche la società semplice può dunque essere usata come S.t.p., anzi, se si sceglie la società di persone come forma organizzativa della società professionale, indubbiamente la società semplice appare una forma estremamente idonea, per la sua intrinseca natura non commerciale, dovendo la S.t.p. avere come oggetto “l’esercizio in via esclusiva dell’attività professionale da parte dei soci”. Se si sceglie di organizzare l’attività professionale con una società commerciale c’è poi il problema della sua sottoponibilità o meno a fallimento: nel silenzio della legge, è dubbio se prevalga la natura oggettivamente commerciale della forma societaria oppure, come pare, la natura intrinsecamente non commerciale dell’attività professionale esercitata.
Un recente decreto del Tribunale di Forlì, sezione fallimentare, n. 17538/2017, ha sancito che la S.t.p. non è soggetta al fallimento perché non svolge attività di impresa commerciale. I soci della S.t.p. possono essere: professionisti iscritti a Ordini, Albi e Collegi; professionisti di Stati UE; soggetti non professionisti “soltanto per prestazioni tecniche”; soggetti non professionisti che diventano soci della S.t.p. “per finalità di investimento” (soci di capitale).
La legge n. 183 tace sulla ripartizione del capitale tra professionisti e coloro che invece non sono iscritti in alcun ordine professionale. Quindi, si può avere una S.t.p. con professionisti al 90% e non professionisti al 10%, e viceversa. Nella legge nulla è detto nemmeno sul punto della composizione degli organi. È ipotizzabile, ad esempio, che in una società in accomandita semplice tra professionisti, l’accomandatario sia un non professionista, così come un consiglio di amministrazione di una S.p.a. professionale potrà essere, in tutto o in parte, composto da non professionisti. Tuttavia, il numero dei soci professionisti e la partecipazione al capitale sociale dei soci professionisti deve essere tale da determinare la maggioranza di due terzi nelle deliberazioni o decisioni dei soci.
Avv. Giuseppe Acierno