Rubrica di aggiornamento legislativo e giurisprudenziale del 26 novembre 2015
Comunicazione inizio attività – provvedimento inibitorio per mancata produzione del titolo di proprietà
La Denuncia di Inizio Attività (D.I.A.) è la comunicazione inoltrata all’Autorità comunale, mediante autocertificazione, dell'intenzione di realizzare gli interventi edilizi in essa descritti, che abilita l’esecuzione di un intervento edilizio in conformità agli strumenti di pianificazione urbanistica e alla normativa edilizia, igienico-sanitaria e di sicurezza.
La DIA è riconosciuta come procedura facoltativa alternativa al permesso di costruire e risulta disciplinata nell'ordinamento nazionale dal decreto Presidente della Repubblica 6 giugno 2001 n. 380 Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (artt. 22 e 23).
A seguito dell’introduzione della S.C.I.A. (Segnalazione Certificata di Inizio Attività - Legge 30 luglio 2010, n. 122), nonché della liberalizzazione degli interventi di manutenzione straordinaria (Decreto Legge 70/2011), il ricorso allo strumento in commento oggi è molto meno frequente.
La D.I.A. segue il meccanismo del silenzio-assenso: il potere inibitorio previsto dal co. 6 dell’art. 23 del D.P.R. 380/01, può essere esercitato entro il termine perentorio di trenta giorni, trascorso il quale possono soltanto essere emanati provvedimenti d’autotutela e sanzionatori. Alla scadenza del termine di trenta giorni matura l’autorizzazione implicita ad eseguire i lavori progettati ed indicati nella D.I.A., fermo restando il potere dell’Amministrazione comunale di provvedere anche successivamente alla scadenza del termine stesso, ma non più con provvedimento inibitorio (ordine o diffida a non eseguire i lavori), bensì con provvedimento sanzionatorio (se i lavori sono già stati eseguiti, in tutto o in parte) di tipo ripristinatorio o pecuniario, secondo i casi, in base alla normativa che disciplina la repressione degli abusi edilizi.
Con la sentenza n. 5082 del 9 novembre 2015, la IV Sezione del Consiglio di Stato ha affermato il principio secondo cui l’assenza della documentazione da allegare obbligatoriamente alla dichiarazione di inizio attività rende la dichiarazione in parola inidonea a fare decorrere il termine per la formazione tacita del titolo abilitativo: “è jus receptum che l’assenza della documentazione da allegare obbligatoriamente alla dichiarazione di inizio attività rende la dichiarazione stessa inidonea a far decorrere il predetto termine, e pertanto impedisce il formarsi del titolo ad aedificandum (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. IV, 24 maggio 2010, n. 3263)”.
avv. Riccardo Rotigliano
rrotigliano@scozzarirotigliano.com
Consiglio di Stato, VI sezione, sentenza n. 4927 del 28 ottobre 2015 – Autorizzazione paesaggistica e parere della Soprintendenza
La sentenza in commento riguarda la dibattuta questione della perentorietà del termine di 45 giorni per il rilascio da parte della Soprintendenza del parere ai sensi dell’art. 146, commi 5 e 8, del D. Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio).
Così la pronuncia in rassegna: “Si è in tale occasione osservato che, nel caso di adozione di un parere (negativo) da parte della Soprintendenza successivamente al decorso del richiamato termine di quarantacinque giorni, sarebbero astrattamente ipotizzabili tre opzioni:
a) in base a una prima opzione, in siffatte ipotesi dovrebbe concludersi nel senso dell’intervenuta consumazione del potere per l’Organo statale di rendere un qualunque parere (di carattere vincolante o meno);
b) in base a una seconda opzione, nelle medesime ipotesi dovrebbe concludersi nel senso della permanenza in capo alla Soprintendenza del potere di emanare un parere di carattere comunque vincolante (dovendosi in particolare riconoscere carattere meramente ordinatorio al richiamato termine);
c) in base a una terza opzione interpretativa, nelle ridette ipotesi non potrebbe escludersi in radice la possibilità per l’Organo statale di rendere comunque un parere in ordine alla compatibilità paesaggistica dell’intervento; tuttavia il parere in parola perderebbe il carattere di vincolatività e dovrebbe essere autonomamente valutato dall’amministrazione deputata all’adozione dell’atto autorizzatorio finale”.
A fronte delle opzioni ermeneutiche rappresentate, il Collegio ritiene che prevalenti ragioni di carattere sistematico depongano nel senso dell’adesione all’orientamento volto a riconoscere carattere perentorio al termine di quarantacinque giorni di cui al comma 5 dell’articolo 146, cit. (in tal senso: Cons. Stato, VI, sent. 15 marzo 2013, n. 1561).
La decisione in parola ha ritenuto che l’evoluzione normativa, che ha trasformato l’atto di controllo annullatorio in una forma di cogestione del vincolo, non ha inciso sulla perentorietà del termine entro il quale l’atto di esercizio del relativo potere può e deve essere adottato.
È stato in particolare osservato che, in caso di superamento, da parte della competente Soprintendenza, del termine ordinariamente previsto per il rilascio del proprio parere (vincolante) ai sensi dei commi 5 e 8 dell’articolo 146 del decreto legislativo n. 42 del 2004, il potere in capo all’organo statale continua a sussistere (tanto che un suo parere tardivo resta comunque disciplinato dai richiamati commi 5 e 8 e mantiene la sua natura vincolante), ma l’interessato può proporre ricorso dinanzi al G.A. per contestare l’illegittimità del silenzio serbato dall’amministrazione statale.
In base a tale orientamento, la perentorietà del termine non riguarderebbe la sussistenza del potere o la legittimità del parere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato sussistente dal Giudice con le relative conseguenze sulle spese del giudizio derivato dall’inerzia del funzionario).
Così ancora i Giudici di Palazzo Spada: “Alla luce delle coordinate ermeneutiche sopra evidenziate, pertanto, si osserva che il parere tardivamente reso e liberamente valutabile dal Comune perde, insieme con la propria efficacia vincolante, valenza di arresto procedimentale, assumendo connotazione strumentale rispetto al provvedimento comunale conclusivo del procedimento.
Ad avviso del Collegio, la lettura sistematica dell’articolo 146 citato non consente di accedere alla soluzione che mira a riconoscere perdurante vincolatività al parere reso oltre i termini di legge”.
Numerosi interventi legislativi hanno recentemente modificato, talora in maniera disorganica, la disciplina in tema di autorizzazione paesaggistica. L’art. 25 dello “Sblocca Italia” (d.l. n. 133/14, rubricato “Misure urgenti di semplificazione amministrativa e di accelerazione delle procedure in materia di patrimonio culturale”) è intervenuto nuovamente sull’art. 146 del nella parte concernente il ruolo delle Soprintendenze nel procedimento autorizzatorio.
Il nuovo comma 9 dell’art. 146, come modificato dallo Sblocca Italia, dispone che: “Decorsi inutilmente sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del soprintendente senza che questi abbia reso il prescritto parere, l’amministrazione competente provvede comunque sulla domanda di autorizzazione”. Le finalità della riferita modifica si ricavano dalla Relazione di accompagnamento al d.d.l. di conversione del d.l. n. 133: fornire una “chiarificazione circa la prescindibilità del parere del soprintendente”, tanto più opportuna, avuto riguardo agli “orientamenti spesso contrastanti della recente giurisprudenza”.
avv. Riccardo Rotigliano
rrotigliano@scozzarirotigliano.com
Corte di Cassazione, sez. III civile, sentenza del 18 luglio 2014 n. 16501 – Compensi professionali e operatività della fictio di avveramento
Qualora il pagamento del compenso al professionista è sottoposto alla condizione dell’ottenimento del titolo concessorio, il ritiro dell’istanza di concessione edilizia è chiaramente sintomatico del venir meno dell'interesse ad ottenerla da parte del committente.
A tenore della decisione in commento, deve ritenersi, pertanto, che tale condotta integri un comportamento idoneo a configurare un'ipotesi di "interesse contrario", comportante l'operatività della previsione dell'art. 1359 c.c.
Tale articolo, infatti, in forza del quale la condizione si ha per avverata se è mancata per causa imputabile alla parte controinteressata al suo avveramento, non si riferisce solo a coloro che, per contratto, apparivano avere interesse al verificarsi della condizione, ma anche ai comportamenti di chi in concreto ha dimostrato, con una successiva condotta, di non avere più interesse al verificarsi della condizione, ponendo in essere atti tali da contribuire a far acquistare al contratto un elemento modificativo dell'"iter" attuativo della sua efficacia.
In questi termini la pronuncia in rassegna: “Sul tema della fictio di avveramento (art. 1359 c.c.: "la condizione si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all'avveramento di essa") va registrato un progressivo allineamento della giurisprudenza di questa Corte verso posizioni che, facendo leva sull'obbligo delle parti di comportarsi secondo buona fede nello stato di pendenza della condizione (cfr. Cass., S.U. n. 18450/2005: "il contratto sottoposto a condizione potestativa mista è soggetto alla disciplina di cui all'art. 1358 cod. civ., che impone alle parti l'obbligo giuridico di comportarsi secondo buona fede durante lo stato di pendenza della condizione, e la sussistenza di tale obbligo va riconosciuta anche per l'attività di attuazione dell'elemento potestativo della condizione mista"), valutano l'esistenza di un interesse contrario all'avveramento non in termini astratti o facendo riferimento al solo momento della conclusione del contratto, ma valorizzando il dato dell'effettivo interesse delle parti all'epoca in cui si è verificato il fatto o comportamento che ha reso impossibile l'avveramento della condizione. (omissis) Ritiene il Collegio di fare propri i principi espressi da quest'ultimo orientamento, che realizzano un diretto collegamento della previsione dell'art. 1359 c.c. con i principi di buona fede imposti - nello specifico ambito del negozio condizionato - dall'art. 1358 c.c. e - più in generale - dagli artt. 1175 e 1375 c.c. e che consentono di valutare l'interesse contrario all'avveramento di una condizione non in astratto ed in relazione alla posizione delle parti quale si prospettava al momento della conclusione del contratto, bensì in concreto ed in relazione all'effettivo interesse quale si è venuto sviluppando in corso di rapporto e — segnatamente - al momento in cui è stata posta in essere l'attività (o l'omissione) che ha impedito l'avveramento della condizione. Va dunque affermata la possibilità che l'art. 1359 c.c. trovi applicazione anche nel caso in cui l'interesse di una delle parti - originariamente convergente con quello della controparte - si modifichi in corso di rapporto fino a risultare contrario all'avveramento della condizione”.
avv. Riccardo Rotigliano