Newsletter aggiornamento giurisprudenziale n. 10/2020
In questo numero, approfondiamo due sentenze del Consiglio di stato. Nella prima, i giudici di Palazzo spada si esprimono sulla mancata dichiarazione di una risoluzione contrattuale che non comporta l'esclusione automatica; la seconda sentenza riguarda l’istituto dello stand still che, secondo il CdS, non impedisce le attività propedeutiche alla stipula del contratto, pur nell’ambito della tutela del concorrente non aggiudicatario.
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Cons. Stat., sez. V, snet. n. 5228/2020: la mancata dichiarazione di una risoluzione contrattuale non comporta l'esclusione automatica.
La mancata dichiarazione da parte del concorrente di una pregressa risoluzione contrattuale in danno non costituisce causa di automatica esclusione dalla procedura di gara.
Tale omessa dichiarazione può essere peraltro oggetto di valutazione da parte dell'ente appaltante, che va operata tenendo conto della rilevanza del fatto omesso e del tempo trascorso dal compimento del medesimo.
Si è espresso in questi termini il Consiglio di Stato, nelle sentenza in commento, che interviene sulla controversa materia dell'estensione degli obblighi dichiarativi in sede di gara, su cui, peraltro, si è recentemente espressa l'Adunanza Plenaria, con la sentenza n. 16/2020.
Un comune aveva bandito una procedura di gara per l'affidamento dei lavori di adeguamento sismico, efficientamento energetico e messa in sicurezza di un edificio scolastico.
Alla procedura partecipavano solo due concorrenti. A fronte dell'intervenuta aggiudicazione l'altro concorrente non aggiudicatario proponeva ricorso davanti al giudice amministrativo. A fondamento del ricorso adduceva la circostanza secondo cui l'aggiudicatario doveva, in realtà, essere escluso dalla procedura, in quanto non aveva dichiarato in sede di gara l'esistenza di una pregressa risoluzione di un precedente contratto di appalto, disposta in suo danno da un altro ente appaltante.
Il Tar Calabria accoglieva il ricorso sulla base della ricostruzione delle disposizioni dell'art. 80 del d.lgs. n. 50/2016 sulle cause di esclusione. Nello specifico, sottolineava che la lettera c–ter) del co. 5 prevede l'esclusione del concorrente che abbia posto in essere significative carenze nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto, tali da causare la risoluzione per inadempimento (ovvero la condanna al risarcimento del danno o altre sanzioni comparabili).
La norma, dunque, non prevede più – come nella precedente versione – che la risoluzione debba essere non contestata in giudizio ovvero confermata all'esito di un giudizio, per cui ai fini della stessa è irrilevante che la determinazione dell'ente appaltante in merito alla risoluzione sia stata, o meno, contestata dall'appaltatore.
D'altronde, questa nuova formulazione della norma appare coerente con l'orientamento espresso dal giudice comunitario secondo cui non sarebbe coerente con la normativa UE una disposizione nazionale in cui la contestazione in giudizio della decisione dell'ente appaltante di risolvere il contratto di appalto impedisse qualunque valutazione da parte di altra stazione appaltante in merito all'affidabilità del concorrente e conseguentemente alla sua eventuale esclusione dalla gara.
Di conseguenza, poiché l'intervenuta risoluzione di un precedente contratto di appalto è fatto, di per sé, valutabile da parte della stazione appaltante ai fini di deliberare una eventuale esclusione ex lettera c-ter), la sua omessa dichiarazione deve essa stessa essere considerata causa di esclusione ai sensi della successiva lettera f-bis), secondo cui va escluso dalla gara il concorrente che abbia presentato documentazione o dichiarazioni non veritiere.
La decisione del giudice amministrativo di primo grado è stata impugnata dall'originario ricorrente davanti al Consiglio di Stato, che si è pronunciato con la sentenza in commento.
Il Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del primo giudice, ritenendo, quindi, che non vi fossero gli elementi per procedere a un'esclusione automatica del concorrente giustificata dalla omessa dichiarazione di una precedente risoluzione contrattuale.
Per arrivare a questa conclusione il massimo giudice amministrativo ricorda che, per consolidato orientamento giurisprudenziale, il periodo di esclusione relativo a una pregressa risoluzione contrattuale ha durata triennale dalla data del fatto, per tale intendendosi la data di adozione della determinazione di risoluzione unilaterale da parte dell'ente appaltante. Il triennio di riferimento è quello che va dalla data del bando alla data del fatto, intesa nei termini indicati. Ciò anche alla luce della circostanza che una diversa interpretazione volta a non porre alcun limite temporale alla rilevanza della pregressa risoluzione contrattuale si porrebbe in contrasto con la normativa comunitaria.
Sotto altro profilo, il Consiglio di Stato ricorda la distinzione che è stata operata sempre dalla giurisprudenza amministrativa in merito alla causa di esclusione riconducibile alle false dichiarazioni. Tale distinzione si sostanzia nel discrimine tra: omessa dichiarazione, che si ha quando il concorrente non riferisce alcun fatto pregresso, astrattamente qualificabile come grave illecito professionale; dichiarazione reticente, quando le vicende pregresse sono solo accennate ma senza la descrizione necessaria alla stazione appaltante per accertarne l'effettiva portata in termini di affidabilità del concorrente; falsa dichiarazione, che implica la rappresentazione di una circostanza di fatto diversa dal vero.
Nello specifico, l'omissione in sede di dichiarazione da rilasciare ai fini della partecipazione alla gara non può comportare di per sé e in maniera automatica l'esclusione dalla gara medesima. Tale omissione va, infatti, valutata caso per caso dalla stazione appaltante, che è chiamata ad apprezzare non solo il fatto omesso in sé considerato, ma anche il comportamento complessivo del concorrente in modo da poter dare una valutazione d'insieme sulla sua persistente affidabilità.
Alla luce di questo principio, il Consiglio di Stato ha ritenuto che nel caso di specie il fatto che il concorrente avesse omesso di dichiarare l'intervenuta pregressa risoluzione contrattuale in data anteriore al triennio non potesse costituire causa di esclusione automatica dalla gara. Tale omissione, infatti, non può essere considerata rilevante di per sé ai fini di un'eventuale esclusione, ma deve essere adeguatamente valutata dall'ente appaltante tenendo conto della consistenza del fatto omesso e del tempo trascorso dalla sua commissione.
Ne consegue che la mancata dichiarazione di una pregressa risoluzione contrattuale non può integrare la causa di esclusione riconducibile alla "falsa dichiarazione" di cui alla lettera f-bis).
Resta, naturalmente, fermo il potere della stazione appaltante di operare il dovuto apprezzamento in merito al comportamento del concorrente, ai fini di valutare complessivamente la sua affidabilità e, quindi, la conseguente idoneità a rendersi eventualmente aggiudicatario dell'appalto. Ma si tratta di un apprezzamento discrezionale che non prevede alcun genere di automatismo e che, anzi, implica l'attenta valutazione di tutti gli elementi probatori da operare anche attraverso un idoneo contraddittorio con il soggetto interessato.
Cons. Stat., sez. V, sent. n. 5420/2020: niente stand still di 35 giorni per i mini-appalti.
Lo stand still così detto processuale – quello cioè che consegue alla proposizione di un ricorso giurisdizionale con contestuale istanza cautelare – è diretto unicamente a tutelare l'interesse del concorrente non aggiudicatario a ottenere una prima pronuncia giudiziaria – appunto sull'istanza cautelare – quando il relativo contratto non è ancora stato stipulato.
Di conseguenza, durante il periodo di stand still non è in alcun modo impedito lo svolgimento di attività successive all'aggiudicazione e propedeutiche alla stipula del contratto, quali la verifica dei requisiti o altri adempimenti previsti dalla legge di gara.
Sono questi i principi affermati dal Consiglio di Stato, che individua in maniera puntuale la ratio e i limiti di funzionamento dello stand still, offrendo, peraltro, l'occasione per definire le modalità in cui l'istituto si pone rispetto alle novità in tema di affidamenti dei contratti sottosoglia recentemente introdotte dal d.l. n. 76/2020 (Decreto semplificazioni).
Una centrale di committenza aveva indetto una procedura di gara per la conclusione di una convenzione per il servizio sostitutivo di mensa. Tale servizio doveva essere reso tramite accordi di convezione sottoscritti tra l'affidatario e i singoli esercizi commerciali presso i quali i fruitori del servizio potevano rivolgersi per utilizzare i buoni pasto.
A tal fine il disciplinare di gara conteneva una clausola secondo cui l'aggiudicatario, entro 45 giorni dalla comunicazione dell'aggiudicazione, doveva fornire evidenza, a pena di decadenza dall'aggiudicazione, degli accordi di convenzione sottoscritti, in conformità a quanto indicato in sede di offerta.
Nel caso di specie, l'aggiudicatario non adempieva correttamente a questo obbligo, adducendo a giustificazione una serie di difficoltà operative sorte con gli esercenti commerciali e richiedendo una proroga dell'originario termine di 45 giorni. Conseguentemente, la stazione appaltante, non ritenendo vi fossero le condizioni per accordare la proroga, disponeva la decadenza dall'aggiudicazione e l'incameramento della cauzione.
Contro questa decisione l'aggiudicatario proponeva ricorso davanti al giudice amministrativo. Tra i motivi di ricorso, assumeva particolare rilievo quello secondo cui l'effetto sospensivo della stipulazione del contratto conseguente alla proposizione di un ricorso giurisdizionale – appunto il così detto stand still processuale - comporterebbe anche la sospensione dell'adempimento di tutti gli obblighi conseguenti all'intervenuta aggiudicazione e in particolare, con riferimento al caso di specie, la sospensione dell'obbligo di presentare gli accordi di convenzione con gli esercenti commerciali.
Il giudice amministrativo di primo grado respingeva il ricorso e in particolare non riteneva meritevole di accoglimento la censura indicata.
Con riferimento a quest'ultimo profilo, il primo giudice evidenziava come lo stand still risponde alla fondamentale esigenza dei concorrenti alla gara di far valere le proprie ragioni in giudizio senza essere pregiudicati dall'avvenuta stipula del contratto. Questa essendo la ratio dell'istituto, la sospensione della stipula del contratto non può in alcun modo essere utilizzata per sospendere o prorogare i termini previsti dalla legge di gara per l'assolvimento di un adempimento posto a carico dell'aggiudicatario, che risulta propedeutico alla sottoscrizione del contratto stesso. In questo modo, infatti, si finirebbe per attribuire allo stand still una funzione che gli è del tutto estranea, con l'effetto di utilizzarlo per modificare in modo illegittimo una specifica clausola contenuta nella documentazione di gara.
Contro questa decisione del TAR l'originario aggiudicatario proponeva ricorso al Consiglio di Stato.
In sede di appello il ricorrente ha sostenuto che il primo giudice non avrebbe considerato che lo stand still processuale deve considerarsi rivolto a tutelare non solo l'interesse del concorrente non aggiudicatario che ha presentato ricorso giurisdizionale a non vedersi pregiudicato dalla rapida stipulazione del contratto, ma anche l'interesse dell'aggiudicatario che – una volta attivato il meccanismo di sospensione della stipula – sarebbe esentato dall'assolvimento degli adempimenti strettamente necessari e propedeutici a detta stipula.
In sostanza, la sospensione determinata dalla proposizione del ricorso giurisdizionale investirebbe l'intero segmento procedimentale successivo all'aggiudicazione. Ciò in quanto, una volta proposto il ricorso, viene messa in dubbio la legittimità della procedura di gara e della relativa aggiudicazione. Di conseguenza, ogni successiva attività posta in essere, sia dall'ente appaltante, che dall'aggiudicatario, potrebbe rivelarsi inutile, con inevitabile spreco di risorse e quindi in contrasto con i principi di economicità efficienza e buon andamento dell'azione amministrativa.
Applicando questi principi al caso di specie la tesi del ricorrente è che il termine di 45 giorno in cui lo stesso avrebbe dovuto presentare gli accordi di convenzione con gli operatori commerciali doveva considerarsi sospeso ope legis, proprio in virtù dell'avvenuta proposizione del ricorso giurisdizionale da parte di altro concorrente non aggiudicatario.
Questa prospettazione è stata respinta dal Consiglio di Stato. Il giudice di appello ricorda, anzitutto, che, in base alla previsione dell'art. 32, co. 11, del d.lgs. n. 50/2016, la proposizione di un ricorso giurisdizionale con contestuale istanza cautelare comporta che il relativo contratto non può essere stipulato per almeno venti giorni, se entro questo termine interviene un provvedimento del giudice (ordinanza cautelare o decisione di merito). Se, tuttavia, entro i venti giorni questi provvedimenti non vengono adottati, la sospensione si prolunga fino alla pronuncia degli stessi. L'effetto sospensivo cessa se il giudice si dichiara incompetente o non concede misure cautelari.
Si tratta, appunto, dello stand still processuale, secondo cui la proposizione di un ricorso giurisdizionale con contestuale istanza cautelare blocca la stipula del contratto per almeno venti giorni.
A questo riguardo il Consiglio di Stato ribadisce come la ratio dell'istituto vada individuata nella tutela che viene accordata all'interesse del concorrente che impugna l'aggiudicazione di poter ricevere una prima valutazione delle sue ragioni in sede giudiziaria prima che il contratto sia concluso. In questo modo, da un lato si rafforza la tutela del ricorrente, che può eventualmente rendersi esso titolare del contratto; dall'altro non vi è neanche una compromissione dell'interesse pubblico, come si avrebbe se fosse accolta l'istanza di sospensione con il contratto già stipulato e magari con la fase esecutiva già iniziata.
Sotto questo profilo l'interesse dell'aggiudicatario – e anche quello dell'ente appaltante – alla celere stipulazione del contratto diviene recessivo ma tale aspetto è mitigato dalla durata temporale limitata dello stand still.
Se questa è la ratio dell'istituto, la conseguenza è che l'effetto sospensivo non può che rimanere circoscritto alla stipulazione del contratto, non potendosi certamente estendere a tutte le altre attività propedeutiche a tale stipulazione, la cui sospensione non trova alcuna ragione giustificatrice. Ed anzi, verrebbe illogicamente e inutilmente pregiudicato l'interesse dell'ente appaltante e anche dell'aggiudicatario, posto che senza alcuna valida ragione sarebbe impedita qualunque attività propedeutica alla stipula, con un inevitabile allungamento dei tempi una volta esaurito il periodo di stand still.